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lunedì 20 febbraio 2012

ITALA del 1918

da andrea, ammiriamo questa bella e antica bicicletta da corsa ITALA del 1918! restaurata completamente, in quanto le cattive condizioni di stato al momento del ritrovamento non hanno permesso il restauro conservativo.


I T A L A

1918

Bici da corsa su strada

Cambio “giro-ruota” con doppio pignone fisso



L’ITALA Fabbrica Automobili è stata fondata a Torino nel 1904 da Matteo Ceirano e altri cinque soci. A lungo è stata la seconda fabbrica italiana per la produzione di autovetture, esportandole in tutto il mondo, avendo nella clientela i nomi dei regnanti e dei grandi protagonisti dell'epoca nel campo della finanza e del potere. Con l’inizio della prima guerra mondiale iniziò il declino della società che, per restare in vita, dedicò quasi tutta l’attività alla produzione di motori su licenza Hispano-Suiza per l'aeronautica. Durante il primo conflitto mondiale, in uno stabilimento alle porte di Torino, l’ITALA si cimentò anche nella produzione di biciclette per l’esercito italiano. Nel 1918 col terminare della guerra l’ITALA cercò di ripartire come ogni industria metalmeccanica dell’epoca, dedicandosi oltre che allo sviluppo automobilistico, anche alla produzione artigianale di biciclette di pregio utilizzando mastri artigiani del posto. Le biciclette ITALA, nonostante l’elevata qualità costruttiva, ebbero vita breve; infatti l’azienda nel 1929 ebbe un crollo finanziario, che la vide fondersi con le Officine Metallurgiche e Meccaniche di Tortona, assumendo la nuova ragione sociale in Itala S.A. La società venne messa in liquidazione nel 1931 e infine chiuse nel 1934 sotto il nome di Itala SACA, creata per completare e vendere le rimanenze di produzione.



quì nelle mani del ciclomeccanico di fiducia!


lunedì 3 maggio 2010

ITALA

in risposta al messaggio di davide, in telaio, bruno ci presenta questa Itala del 1926!

colorazione avveniristica, per gli anni venti. nichelature alle parti bianche, parafanghi a schiena d'asino, manubrio del tipo roller, serie sterzo integrata, giroruota!






lunedì 27 ottobre 2008

soffitte

la parola a Le Jim, ciclista d'altri tempi..

Questa è la storia di una soffitta, no. Anzi, questa è la storia d’un ritorno e d’una nuova casa.
D’una casa che ha anche una soffitta. Ad ogni modo questa è soprattutto la storia d’una bicicletta.
Quando mi diedero le chiavi di questa casa ancora non ci credevo, la casa è davvero enorme e vuota e camminandoci dentro sento i miei passi rimbombare.
Mi avevano detto che la casa aveva anche una soffitta, ma la vecchia inquilina non aveva consegnato più le chiavi o una roba così. Io intanto continuo ancora a camminare, assaporando il parquet che scricchiola sotto le suole e la sua eco. Soffitta. Già. Io amo le soffitte, meglio se abbandonate ed ingombre d’immondizia. Di cose polverose che qualcuno, reputandole inutili o inservibili, ha abbandonato ad un destino di discarica. Se hai mai chiesto alla polvere puoi sapere che a volte risponde, regalando sorprese che arrivano da un passato talmente remoto che si può solamente fantasticare. Ricordo anche di quando con gli amici si narrava di ritrovamenti in soffitte sgombrate, di quando qualche vecchietto davanti alla classica domanda: “Ma dove l’hai trovata ‘sta bici?!” mi rispondeva: “Mah…in una soffitta” oppure “In solaio, era del mio nonno-bis”.
Io, che in soffitta al massimo c’ho trovato solo qualche disco di grammofono oppure una vecchia scala, m’incazzavo sempre. Contro la sorte, contro le case senza soffitte o quelle con le soffitte chiuse a chiave da ’48. Ma chiedevo alla polvere da un bel pezzo.
Così sulla mensola accanto al contatore trovo tre vecchie chiavi, di quelle proprio vecchie e grandi, al limite del tascabile, ed i miei occhi s’illuminano, già solo per le chiavi.
Perché sono vecchie. Perché sono proprio belle.
Poi le sinapsi partono ed alla mente affiora l’immagine della porta delle soffitte, della toppa della serratura. Esco di casa e mi fiondo alle soffitte, che sono proprio accanto sul pianerottolo, senza neanche tirarmi dietro la porta.
Lì davanti mi rigiro le chiavi nella mano, continuando a chiedere, a sperare. E’ la seconda a far girare la serratura. Accendo la luce e mi si presenta un lungo corridoio con vecchie porte in legno speculari. Chiusa. Chiusa. Chiusa. Lucchetto. Chiusa. Ne trovo una aperta. Entro. Un sacco di porcheria. Scarponi da sci, specchi, cestini di vimini. La roba più vecchia avrà al massimo vent’anni. Un po’ triste esco e continuo a saggiare le porte. Ce n’è un'altra senza lucchetto socchiusa, c’è solo la sua vecchia serratura. Vecchie serrature…
Spingo la porta, speranzoso. Davanti a me si apre un grosso sottotetto quasi vuoto, solo qualche cavalletto ed i pezzi d’un mobile dai decori liberty. Mooolto vecchio… C’è un lucernaio sul tetto.
E’ sera e la luce flebile e timida si riflette su un cerchietto tondo, alla mia destra, tingendosi di rosso.
Una gemma.
Di più, una gemma su un vecchio parafango bianco che si finisce aprendosi in un aletta.
Un parafango Amerio?!?
Il cuore inizia a spingermi forte il torace.
Un parafango che abbraccia una ruota.
Una ruota montata su una bici!
C’è una bici!
L’ho trovata…la mia prima bici trovata in una soffitta! Cazzarola!
Mi avvicino piano, quasi con soggezione. E’ una bici da uomo. Da passeggio. A bacchetta. No, aspetta, non è a bacchetta, non ci sono le leve. Contropedale. Guardo il mozzo dietro, ma è buio e non si vede niente. Mi faccio luce con l’accendino. No, il mozzo è molto grande ed ha l’ingrassatore, sembra molto vecchio, ma non è un contropedale. Iniziano a mancare i pezzi…porcazozza! La passo al microscopio. Manubrio-telaio-corona-pedivelle-pedali-ruote-parafanghi. Ha delle bellissime farfalle a serrare le ruote. Pedali originali. Sul telaio c’è un adesivo, uno scudetto con su scritto “Cicli 1941”, almeno sembra… Polvere, un dito di polvere ovunque. Guardo il canotto, voglio la marca…Cicli…Cicli …Ita..a. Itala?! Ci passo su leggermente un dito, c’è un sacco di polvere, sorrido, soffio. Chiedi alla polvere. Penso a Fante. Sorrido…Cicli..Boh! Non si capisce perché la scritta s’è mezza cancellata.
Mi fermo. Accendo una sigaretta e sto lì dieci minuti buoni a guardarla…fantasticando.
E tu da dove arrivi? Chissà quanta strada hai fatto. Forse qualcuno t’ha comprata con un sacco di sacrifici per poter andare più comodamente a lavoro. Forse hai vibrato sotto il fragore sordo delle bombe e chissà quante scale hai fatto appoggiata alle spalle del tuo proprietario per andare al sicuro, dentro casa.
E poi t’avranno venduta e rivenduta arrangiata finché non hai trovato un padrone che, anche lui è riuscito a comprarsi a cambiali la seicento e t’ha abbandonata qua. Sola. Per tutti questi anni.
Ma ciao! Per quanto tempo hai aspettato che qualcuno ti trovasse!
Io. Hai trovato me. Chiamiamolo caso. Fattostà che t’è andata bene. Io t’ho trovata e prometto che ti pulirò dalla polvere, che toglierò quella fastidiosa ruggine, t’ingrasserò a dovere e ti regalerò un paio di scarpe nuove. Ti farò vedere che lì fuori c’è ancora un mondo. Forse un po’ diverso da come lo ricordi tu. Senza più tutti quei ciottoli, quella terra ed il fango. Senza il coprifuoco. Con un sacco di scatole di lamiera che puzzano e corrono così veloci che non immagini neanche; ma fatto anche di belle strade lisce e silenziose, fiancheggiate da alberi, che non aspettano altro di essere pedalate.

Le Jim

martedì 29 giugno 2010

galletti

per la prima colazione di domani, accanto a biscotti e caffè, aggiornamento delle informazioni su Itala!

sabato 26 marzo 2016

F.lli Bertoldo

Grazie a Walter, interessante storia e documenti d'inizio '900!
Macinare chilometri e macinare caffè

Dal sito del comune di Forno Canavese

Storia della F.lli Bertoldo - Marca Tre Spade

Una foto di fine ottocento ci racconta l'inizio di questa storia. E' ritratto un elegante gruppo di famiglia; il capostipite è il signor Bertoldo, seduto in prima fila, secondo da destra, con alla sua sinistra il primogenito Giovanni Battista, il cane preferito e il nipotino maggiore. Dietro, ma in piedi, gli altri tre figli, Secondo, Delfino e Carlo; tutte le signore, vestite in modo quasi identico  tra loro e con in mano un ventaglio, a sottolineare la loro condizione di 'benestanti'; davanti i nipotini, o meglio le nipotine, visto che due reggono tra le mani una bella bambola. Evidentemente ognuno si è portato l'oggetto più caro; il nipotino primogenito esibisce un cagnino di legno.  All'epoca della foto, scattata presumibilmente tra il 1895 e il 1900, il padre aveva già da anni aperto la sua officina nella frazione Vignetta di Forno. Negli ultimi anni del secolo, ad aiutarlo nell'attività si erano aggiunti i quattro figli, che erano stati mandati a Terni per imparare il mestiere. Anche di questo 'viaggio di formazione' ci racconta una foto, scattata proprio a Terni e che ritrae i quattro giovani (oltre ad un amico) in posa quasi da dandy, e con l'aria di essere pronti a conquistare il mondo. Costoro ritornano nel paese natio nel 1894, con molte nuove idee e progetti. Sull'onda dell'esperienza accumulata e delle cose viste, danno un impulso completamente diverso all'attività del padre, trasformandola da 'boita', ossia officina artigianale,  in attività quasi industriale. Iniziano con il costruire un nuovo stabilimento ed accanto erigono la palazzina Uffici dell'azienda (edificio che esiste tuttora per la stessa funzione). Battezzano la nuova ditta con il nome di 'Fratelli Bertoldo', e la allestiscono con i nuovi macchinari che hanno sperimentato proprio a Terni. Si tratta di magli a caduta libera, che sostituiscono i più antiquati magli a testa d'asino. Chiamati 'berte', sono costituiti da una mazza battente sollevata da una cinghia ed un tamburo a frizione. I pezzi forgiati sono poi lavorati ed accoppiati ai prodotti di falegnameria, per la produzione di martelli, pinze, tenaglie, posate, svettatoi, forbici. La rifondata 'Fratelli Bertoldo' decide di aprire anche un reparto di 'art menager', e quindi con il dilagare del consumo di caffè, inizia la produzione dei macinacaffé (allora comunemente chiamati 'macinelli da caffè'), che invadono il mercato e che impongono un ritmo produttivo di 1000 esemplari al giorno. I fratelli si inventano anche un marchio, 'Tre Spade', contraddistinto da tre spade incrociate per le punte, e le lettere F.B. in basso, che richiama vagamente quello dell'azienda motociclistica inglese B.S.A. (che infatti li diffidò dall'usare questo marchio ma che perse la causa, perché i fratelli riuscirono a dimostrare che non avevano copiato niente). Dalla fine dell'ottocento in poi tutta la produzione della F.lli Bertoldo si fregiò di questo marchio, in forma tonda o ovale. Ai primi del nuovo secolo non dilaga soltanto la moda del caffè ma anche quella della bicicletta, moderno e democratico mezzo di trasporto alla portata di quasi tutte le borse, e che regala alla gente un'inattesa libertà di movimento. La F.lli Bertoldo, che già costruisce ingranaggi, inizia così anche la produzione di parti per biciclette. Il passo successivo è scontato: come già avevano fatto in Francia i Peugeot, ugualmente costruttori di macinacaffé e utensili per la casa e la cucina, si avventurano nell'insidioso campo della produzione automobilistica, per la quale utilizzano lo sperimentato marchio 'Tre Spade'.  L'anno è il 1905, come ci racconta il catalogo che la accompagnava. La prima vettura è presentata con tutti gli onori, se ne costruiscono cinquanta, forse cento esemplari (come telai) ma successivamente, tra il 1906 e il 1908, la realizzazione viene abbandonata, a favore di una produzione per l'arsenale di Torino sempre più importante. Già nel 1908 la Fratelli Bertoldo fonda con altre quattro aziende il 'Gruppo industriale piemontese' (con sede in viale Stupinigi 65 a Torino) per materiali di artiglieria e nell'immediato anteguerra produce i più svariati manufatti metallurgici e meccanici: strumenti di chirurgia e precisione, parti di affusti e carreggi militari, materiali del Genio, materiali ferroviari.     

I fratelli decidono anche di dar vita ad una fonderia a Torino, in via Roccavione, per la produzione di tritacarne. Non sono gli unici industriali di Forno Rivara. Nel 1911 due loro cognati, i signori Obert e Rolle, fondano una azienda, la Obert Giuseppe & C., specializzata nello stampaggio a caldo dell'acciaio e nelle lavorazioni meccaniche. La ditta va bene, si ingrandisce acquisendo altre officine e fabbriche del ramo, come la Bartolomeo Truchetti di Forno. Va così bene che all'inizio degli anni trenta i due cognati rilevano la Fratelli Bertoldo, che nel frattempo stava dibattendosi in pesanti difficoltà, e nel 1938 la società si trasforma in F.A.C.E.M., Fabbricazione Articoli Casalinghi e Metallurgici, di cui primo Presidente è nominato Giovanni Battista Rolle. L'azienda esiste tuttora, nello stesso ramo produttivo e in mano alla stessa famiglia, impiega 120 operai, con uno stabilimento a Forno e uno a Valperga. L'attuale Presidente e Amministratore Delegato è  l'ingegner Giovanni Battista Rolle, omonimo e nipote diretto di uno dei due fondatori. Fino al 2003 era in attività anche la Fonderia Bertoldo di Torino. Per tornare alla macchina, di cui esiste ancora un telaio in mano alla famiglia Rolle, si trattava di una 16/24 HP con motore a quattro cilindri e 'valvole d'acciaio comandate', raffreddamento ad acqua, frizione a dischi, cambio a quattro marce e retromarcia, trasmissione a catena, quattro freni (due sulle ruote posteriori, uno sul differenziale, uno sull'albero condotto per mezzo del pedale destro). Veniva venduta, come chassis da carrozzare e senza gomme, a 7.000 lire; le gomme comportavano un esborso di 1000 lire in più. Il catalogo proponeva la versione carrozzata a double Phaeton, 'con capote, fanali, portagomme, sacco per la capote, cassetta per gli accessori e portabagaglio in vernice lucida extrafina' a 11.000 lire

IL PERCHE' DI UNA SPARIZIONE

Nella primavera del 1908, a crisi ormai abbattutasi sull'intero comparto finanziario e industriale italiano, ma in particolare su quello automobilistico, si contano già le prime vittime. L'Aquila Italiana, a Torino, è in liquidazione; la Hermes, a Napoli, ha convocato i creditori; a Piacenza ha chiuso la Marchand; a Genova è in liquidazione la Zena e la Flag, che ha trasferito i suoi capitali sulla Spa di Torino. A Firenze il garage Nenci è in liquidazione; la Serpollet Italiana, di Milano, è in aspettativa provvisoria; l'Esperia, di Bergamo, registra una forte perdita; la Turkheimer (Milano) anche, la Florentia riduce il suo capitale; e la Fiat, colosso già allora, segna sette milioni di lire di perdita. Tra le poche industrie automobilistiche italiane a segnare un piccolo utile è l'Isotta Fraschini (9.532 lire di attivo), la Zust di Intra, che chiude il 1907 con 3.074 lire di utile, la Brevetti Fiat (Torino), con 10.319 lire. L'Itala, pur non in affanno, preferisce passare gli utili del 1906 e del 1907 in compenso deperimento stabili e a riserva straordinaria.

"Visto da ben presso il male - scrive Mario Morasso su Motori Cicli & Sports - pesato coraggiosamente il danno, non vi è affatto da disperare per l'avvenire. Tutte le grandi industrie che hanno introdotto una produzione nuova, hanno in principio, per l'inevitabile inesperienza, richiesto sacrifici da parte degli iniziatori stessi. Su tali sacrifici iniziali si è sollevata la loro successiva prosperità. E così sarà dell'industria automobilistica".

Certo, Morasso aveva ragione. Per avere successo in un mare così infido occorreva la grande azienda, con grandi capitali e forti apparati produttivi; mentre era destinata al fallimento la produzione artigianale, della piccola officina familiare. Questo i fratelli Bertoldo capirono con prontezza, e si adeguarono senza fatica, privilegiando la loro vera produzione e tralasciando sogni di gloria troppo grandi, in un campo già affollato di concorrenti ben più robusti.

Donatella Biffignandi

Immagine d'epoca della Officina F.lli Bertoldo

Immagine del telaio in costruzione della "16/24 hp"